ARANCE AMARE. REPORTAGE DA ROSARNO, TRA I BRACCIANTI IMMIGRATI

 

ARANCE AMARE. REPORTAGE DA ROSARNO, TRA I BRACCIANTI IMMIGRATI

ROSARNO – Costretti a vivere in capannoni abbandonati, senza luce né acqua. Impiegati in nero, alla giornata, per una paga che raramente supera i 25 euro. Sono i raccoglitori delle arance della campagna tra Rosarno, San Ferdinando e Rizziconi, in provincia di Reggio Calabria. Sono almeno 2.000. Sono tutti immigrati: ghanesi, marocchini, ivoriani, maliani, sudanesi. E quasi tutti senza documenti. È una storia che dura da vent’anni. Arrivano a dicembre, per l’inizio della raccolta dei mandarini. E vanno via a marzo, dopo la raccolta delle arance. Quest’anno però la stampa nazionale si è accorta di loro. È successo lo scorso 13 dicembre, quando alcune centinaia di immigrati africani hanno marciato verso il centro di Rosarno, sfasciando qualche cassonetto per protesta. Il giorno prima, due ragazzi ivoriani di 20 e 21 anni erano stati feriti dagli spari di una pistola. Una ritorsione, secondo gli inquirenti, dopo una rapina andata male. A un mese dai fatti, siamo tornati a Rosarno. Abbiamo visitato le baraccopoli. Siamo usciti all’alba sulle piazze dove si cerca lavoro. E abbiamo scoperto una situazione molto complessa. Dove i proprietari degli aranceti sono i figli dei braccianti che fecero le lotte per le occupazioni delle terre dopo il fascismo. Dove ogni domenica una signora di 85 anni prepara da mangiare agli immigrati che vivono nella vecchia fabbrica in città. E dove un gruppo di avvocati sta cercando di aiutare gli immigrati senza documenti, che qua sono praticamente tutti.
Eppure le contraddizioni restano. L’emergenza abitativa nelle baraccopoli ricavate dentro le due vecchie fabbriche alla Rognetta e alla Cartiera è evidente. Mancano servizi igienici, acqua corrente, elettricità e riscaldamento. “Molti si ammalano qui”, dice Saverio Bellizzi, coordinatore del progetto a Rosarno di Medici senza frontiere. Le condizioni di lavoro sono dure. Ma non c’è lo stesso caporalato della Puglia. La maggior parte delle aziende agricole sono di piccoli produttori. Che vengono direttamente in piazza, ogni mattina, a caricare i quattro o cinque braccianti di cui avranno bisogno per al massimo una settimana. E non sono nemmeno negrieri. In una diffusa economia sommersa, qua il lavoro nero è la norma. E la paga di 25 – 28 euro per le otto ore di lavoro, non è così distante dai 32 euro negoziati dal contratto provinciale di Reggio Calabria. I produttori risparmiano soprattutto sui contributi. Un lavoratore in regola costerebbe sui 40 euro lordi. Ma il settore degli agrumi è in profonda crisi. Le clementine si riescono ancora a vendere a 28 centesimi al chilo. Ma il prezzo delle arance è crollato a 7 centesimi. Eppure nei supermercati si comprano a oltre un euro. Colpa dei tanti passaggi della trasformazione. E di un cartello che – in terra di mafia – ha bloccato lo sviluppo delle cooperative create negli anni passati dai piccoli produttori.
Così lo sfruttamento – come un domino – si ripercuote sull’ultimo anello della catena: i lavoratori. Assunti senza tutela. Anche nel caso dei comunitari, che vengono ingaggiati, per non aver problemi con l’ispettorato del lavoro, ma ai quali non sempre vengono pagate le effettive giornate di lavoro. Senza parlare dei non comunitari. Quasi tutti senza permesso di soggiorno. Quasi tutti non potranno regolarizzarsi per i prossimi dieci anni, avendo ricevuto un decreto di espulsione con divieto di reingresso in Italia. E allora il problema sembra trascendere Rosarno. C’è in Italia un esercito di uomini illegali, costretti alla clandestinità dai meccanismi della legge sull’immigrazione, che vagano da una campagna all’altra del sud. Seguendo le stagioni: i pomodori a Foggia, le arance a Rosarno, le primizie a Caserta, la olive ad Alcamo, le patate a Cassibile. E vanno così a tappare i buchi di un agricoltura che al sud è sempre più in crisi. In quello stesso sud che dopo la seconda guerra mondiale si distinse per le dure lotte contadine del movimento delle occupazioni delle terre.

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