Il Manifesto sul protocollo d’intesa

«È la prova, la nostra rivolta era giusta»

«Davvero hanno arrestato 30 persone? Bene bene, anche se
continua tutto lo stesso». Lamine è un ragazzo guineano. A gennaio ha
partecipato ai moti di Rosarno, e
alla fine del mese era a piazza Venezia a Roma insieme a tanti altri
africani deportati dalla città calabrese per chiedere una sistemazione,
una qualche forma di aiuto, anche se non erano stati colpiti dai
proiettili degli italiani come i quattro uomini che all’epoca ottennero
un permesso di soggiorno dal ministero dell’interno. Sbarcato a Roma
Lamine aveva trovato come unico letto la stazione Termini. Unico
conforto qualche coperta portata dal Comitato di quartiere del Pigneto e
dal centro sociale ex Snia, che ancora oggi continuano ad essere i
punti di riferimento nella capitale per gli ex lavoratori di Rosarno. Almeno, per quelli che hanno
deciso di restare. Perché Lamine commenta la notizia dei trenta arresti
al telefono, da Foggia: «Sono qui giù a lavorare. Sì, ancora agricoltura
– racconta – e tutto è uguale: la gente paga poco e ci sono i capò».
Non c’è neanche bisogno di chiedergli dove dorme: «Come sempre, in una
casa abbandonata».
Se Lamine – di nuovo immerso nella realtà dello
sfruttamento – accoglie la notizia degli arresti con un mezzo sorriso,
chi dice di essere «fuori di me dalla gioia» è Daouda. Trent’anni,
abbandonata la Costa D’Avorio quando ne aveva solo 23, Daouda è arrivato
in Italia un anno fa dopo sei anni passati ad attraversare le frontiere
africane fino alla Libia. Dopo la rivolta di Rosarno
si è buttato a capo fitto nell’impegno politico. E’ molto impegnato –
«sai, abbiamo le nostre associazioni», spiega – ed è spesso lui a
raccontare negli incontri pubblici l’inferno di Rosarno. «Abbiamo perso tutto: abbiamo perso il
nostro lavoro, siamo stati deportati fuori da quella città, siamo stati
dipinti come degli assassini – dice Daouda – ma io non ho mai, e dico
mai, avuto un rimorso per quello che abbiamo fatto. E se oggi la Procura
riconosce che il sistema era quello che abbiamo sempre raccontato, per
noi è una grande vittoria». Ma non solo, Daouda è convinto, e in fondo
ha ragione, che se quella sera gli africani non fossero scesi in strada
dando vita un vero e proprio «riot» a cui gli italiani hanno assistito
terrorizzati, non si sarebbe mai mosso nulla: «Diciamo la verità –
riflette Daouda – possiamo ripetere finché vogliamo che ci sono state
delle esagerazioni: ma se non fosse successo quello che è successo
qualcuno si sarebbe accorto di noi? Questa inchiesta sarebbe mai
partita? Credo proprio di no. Quindi penso che dobbiamo essere fieri».
Per
quanto riguarda le conclusioni a cui è arrivata la Procura, Daouda e il
suo amico Packarisidibe – maliano, anche lui un ex lavoratore di Rosarno – osservano: «Sì, è vero. La
paga era in media di 22 euro al giorno, ma abbiamo lavorato anche per
meno». E l’arresto dei caporali? Anche loro immigrati «vittime del
sistema», oppure agenti attivi dello sfruttamento? «Certo, tutti i
caporali prima sono stati lavoratori – dice Daouda – ma ti dico una
cosa: a me non sono mai piaciuti. Puoi scegliere se sfruttare tuo
fratello. Purtroppo per noi la scelta non c’era. Il lavoro arrivava
soltanto attraverso di loro. Poi certo – aggiunge – c’è qualche caporale
che prende i suoi soldi, tre euro, e ti lascia in pace. Invece ci sono
alcuni che sono veramente dei bastardi: ti vengono vicino quando sei
morto di stanchezza e ti dicono di lavorare più forte per farsi belli
col padrone».
Daouda e Packarisidibe dormono ancora nel centro
sociale ex Snia. Da gennaio non hanno più trovato un lavoro. Gli
attivisti che li seguono si sono impegnati in questi mesi per trovare
uno sbocco: proprio stamattina l’assessorato all’agricoltura della
Provincia di Roma presenterà un protocollo d’intesa con le associazioni
di categoria agricole con cui si tenterà di trovare un’occupazione
regolare a queste persone. Doauda ci spera. Altrimenti dovrà ripartire:
«Certo non posso stare senza lavoro – dice – ma la stagione non è ancora
partita. E poi, non ho molta voglia». Perché? «Perché so che dovunque
andrò sarà come a Rosarno».

di Cinzia Gubbini, Il Manifesto

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